Revocatoria del pagamento all’azienda che sapeva della crisi

Il creditore che riceve una somma di denaro pur consapevole dello stato di dissesto del debitore, in procinto di fallire, è costretto a restituirla al curatore fallimentare.

 

 

 

Se hai un debitore che non ti paga da diverso tempo perché è in crisi di liquidità e sta, quindi, per fallire (circostanza a te ben nota), ma ciò nonostante, dopo numerosi tentativi, richieste e minacce, riesci ad ottenere i soldi che ti spettano, sappi che, se tale azienda fallirà nei mesi successivi, sarai probabilmente costretto a restituire la somma al curatore fallimentare. Questo perché la legge prevede un meccanismo, che si chiama “revocatoria fallimentare” secondo cui tutti gli atti “a titolo oneroso” (ossia i pagamenti per prestazioni di servizi o vendite di beni) fatti dall’imprenditore fallito nei sei mesi prima della dichiarazione di fallimento possono essere revocati, ossia annullati. Essi, infatti, pregiudicano la cosiddetta par condicio creditorum (il diritto di tutti i creditori di essere pagati nella stessa misura, salvo cause di prelazioni).

 

In buona sostanza, se non adempirai spontaneamente alla richiesta del curatore di restituzione della somma, potrai essere citato in tribunale in un giudizio civile. A quel punto, una volta che sarai condannato alla restituzione delle somme ottenute nei sei mesi prima del fallimento del tuo debitore, l’unica carta che potrai giocare è quella di insinuarti al fallimento e chiedere – secondo la nota procedura fallimentare (peraltro assai lunga e aleatoria) – di essere pagato in concorso con gli altri creditori e secondo percentuali.

A ricordare questi concetti è stata una recente sentenza della Corte di Appello di Lecce .

L’esercizio dell’azione revocatoria, in casi come questi, è subordinato però al fatto che il creditore, il quale accetti il pagamento, sia consapevole del fatto che l’azienda del debitore sia in forte crisi e che stia per fallire; e che, proprio in virtù di ciò, onde evitare di doversi sottoporre alla “trafila” altrimenti prevista dalla legge fallimentare, faccia di tutto (eventualmente con un accordo con il debitore) per ottenere il pagamento prima che intervenga la sentenza di fallimento e, quindi, giunga il curatore a “bloccare” tutte le uscite .

 

A dover provare che il creditore fosse consapevole dello stato di insolvenza del debitore è, comunque, il curatore fallimentare.

 

La legge fallimentare , poi, prevede un altro caso di revocatoria: tutte le volte in cui il debitore estingua il proprio debito con mezzi di pagamento diversi dal denaro oppure non considerabili “normali” (ossia non tipici delle normali prassi commerciali), la possibilità di revocare i pagamenti si estende a tutti quelli intervenuti nei 12 mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento. Dunque si tratta di un lasso temporale più ampio dell’ipotesi precedente, proprio perché volto a sanzionare quelle forme di “dilapidazione” del patrimonio aziendale che potrebbero arrecare maggior pregiudizio agli altri creditori.

 

Nella sentenza in commento, la Corte di Appello di Lecce ritiene che il pagare in contanti una ingente somma di denaro non si possa considerare come un “normale mezzo di pagamento” e perciò va revocato.

 

In definitiva, chiunque, conoscendo lo stato di dissesto di un’azienda, non dovrebbe mai accettare pagamenti da parte di quest’ultima, a meno che non voglia, un domani, essere costretto dal giudice alla restituzione di quanto percepito.

Notizia tratta da:laleggepertutti